Carcere e riforme, non dimentichiamo il mandato costituzionale
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13 Novembre 2019
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di Paolo Ciani
In questi giorni il Parlamento sta esaminando senza troppo clamore un testo legislativo che merita una certa attenzione, mentre molti occhi sono puntati sulla riforma della giustizia del ministro Bonafede. Si tratta dello schema di Decreto Legislativo correttivo del Riordino delle carriere delle Forze di Polizia, approvato dal Consiglio dei ministri e in queste settimane all’esame delle Commissioni parlamentari.
In particolare si sta esaminando anche un riordino dei ruoli della Polizia Penitenziaria che, se approvato, rischierebbe di cambiare l’organizzazione che ha tenuto in equilibrio per trent’anni la gestione degli istituti penitenziari e dell’esecuzione della pena in Italia.
Il punto è che, per valorizzare il ruolo della Polizia penitenziaria all’interno del carcere, la norma propone di modificare l’attuale sistema gerarchico su cui si basa l’organizzazione degli istituti di pena e di dare maggiori poteri ai vertici della Polizia penitenziaria rispetto ai direttori. Sono questi ultimi oggi a coordinare e gestire le carceri in Italia: circa 300, si dividono tra istituti di pena e altri organi direttivi.
Sono figure civili, che dipendono dal Ministero della Giustizia (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e, in collaborazione con Polizia e magistratura, si occupano di eseguire quanto dispone il giudice nei confronti di chi ha commesso reati. Il legislatore ha affidato ai direttori la guida delle carceri con la legge n. 395 del 1990, nell’idea che la detenzione non fosse esclusivamente una questione di polizia, ma dovesse affrontare il complesso processo della rieducazione.
Non è banale ricordare che in Italia, a differenza di altre parti del mondo, la pena è tesa al recupero della persona. Lo dice la nostra Costituzione all’articolo 27.
In venti anni di impegno come volontario nelle carceri ho conosciuto bene questo mondo, di cui oggi mi occupo da consigliere della Regione Lazio. Ho visto da vicino non solo la difficile condizione in cui vivono i detenuti, ma anche quella in cui operano le oltre 30 mila unità del personale di Polizia penitenziaria. Conosco bene anche il lavoro dei direttori nelle carceri, in equilibrio tra necessità di sicurezza sociale e rispetto delle regole, per cui è importante un ruolo di terzietà tra l’area del trattamento e l’area di sicurezza.
Ruolo che necessiterebbe anche di un ricambio generazionale, visto che dal 1997 non si fanno nuovi concorsi, oltre che di un riconoscimento della funzione speciale che svolge alla guida di organi complessi. Direi che serve maggior presenza “civile” nel carcere per dare piena attuazione alla Costituzione: il 70% di recidiva dei nostri detenuti dimostra come la funzione di “rieducazione” e reinserimento ancora sia largamente disattesa.
Non credo che il metodo per affrontare un tema così complesso, che mette sul tavolo giuste rivendicazioni e note criticità di una parte come dell’altra possa essere quello di una contrapposizione ideologica. Di questo, il sistema carcere, tutta l’area dell’esecuzione penale esterna, e chi ci lavora, non ha sicuramente bisogno. Nel parlare di riforme bisogna partire innanzitutto dal percorso storico e legislativo che ha portato alle norme oggi in vigore.
A partire dalle indicazioni del Consiglio d’Europa del 1973, quando si sancì che la responsabilità degli istituti penitenziari dovesse spettare alle autorità pubbliche, in un contesto di separazione dalla polizia e dall’esercito. Per passare dalla riforma Gozzini del 1986, che rivoluzionò l’idea stessa di carcere e del “buttare via le chiavi” (riemersa in maniera preoccupante in tempi recenti).
Quanto al metodo con cui affrontare le riforme, voglio anche ricordare il lavoro degli Stati Generali sull’esecuzione della pena (2015/2016), che aprì una stagione innovativa di confronto tra i vari attori coinvolti nel mondo del carcere, dalle associazioni professionali ai volontari. Qualcuno notò che in quella iniziativa mancava la presenza e l’apporto della polizia penitenziaria. Da questo si potrebbe ripartire, da un tavolo comune fra personale civile e di polizia.
C’è bisogno di costruire percorsi condivisi e partecipati perché il carcere non deve essere un sistema chiuso e isolato. Oggi la norma sembrerebbe frutto della sola concertazione di una parte. Certo, la polizia è rimasta senza riordino della carriera troppo a lungo. Però la soluzione non può essere la diminutio di un ruolo “civile” all’interno del carcere. Affrontiamo le legittime aspirazioni di ciascuno con un percorso condiviso insieme alle realtà professionali coinvolte. Senza paura di discussioni faticose, perché perdere di vista la Costituzione sarebbe un danno ancora peggiore.
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