Che senso ha Roma? L’anima perduta di una capitale nell’anno delle elezioni: dibattito
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9 Dicembre 2020
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Mario Giro su DOMANI
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Ci vuole una visione per Roma. Non tanto per ripetere ancora le parole di Momsenn citate troppe volte, ma perché ogni città ha bisogno di una traiettoria, una direzione e di un progetto per il futuro. Quando una vocazione tramonta (pensiamo alle città del Novecento cresciute attorno alla siderurgia o all’economia del carbone o all’industria automobilistica) ne va cercata subito un’altra, pena il tramonto. E’ troppo tempo che Roma non ne possiede una, salvo quella consunta di capitale d’Italia.
Grazie alla Lega tale vocazione ha resistito più del dovuto ma ora sta finendo e l’innovazione tecnologica farà il resto: a causa del covid anche il Palazzo diviene sempre più virtuale. Rimane forte la vocazione di capitale globale della religione cattolica che l’ha resa universalmente nota. Tuttavia tale bene prezioso non viene messo in rilievo dalle élites capitoline e nazionali, salvo rare eccezioni. Che fare dunque?
Partire innanzi tutto dalla realtà: Roma è oggi una città di soli e di anziani soli. Le famiglie single sono poco meno della metà (44 per cento, ma al centro storico superano il 60%) e gli anziani soli sono circa 250.000, di cui oltre la metà poveri. I giovani calano: com’è noto molti vanno a cercare fortuna altrove ma la sfida più amara riguarda quelli che si autoescludono: i Neet (non a scuola, né formazione o lavoro) che sono circa 135.000, raddoppiati in 10 anni. Tale è il volto della capitale oggi.
L’altro aspetto doloroso della condizione romana è la separazione tra ceti, storicamente tradizionale ma che ora ha assunto toni esasperati. A Roma si possono vivere città diverse che non si incontrano mai, cosa più rara a Napoli o a Palermo ma anche meno evidente a Milano, Bologna o Torino. Le periferie romane e il centro rappresentano due mondi distinti: sono passati i tempi in cui i “borgatari” scendevano il weekend al centro per fare lo struscio attorno alle jeanserie di via del Corso. Non esiste nemmeno più il flusso continuo per motivi politici o sociali. Partiti, sindacati, centri culturali, cineforum, radio, giornali e riviste: tutto un tessuto vitale ora scomparso senza essere stato sostituito da nulla. La mobilità in città si riduce a scuola e lavoro.
I ceti agiati mandano i loro figli all’estero, anche quelli che hanno responsabilità nel paese. Non si tratta solo dei politici locali, certo non di gran qualità (ricordate le feste in maschera di maiale?). Si tratta di tutti quegli alti livelli amministrativi ed economici che popolano interi quartieri della città. Una volta facevano tessuto, ora non più. Il voltafaccia delle élite cittadine è ormai manifesto. Come ha giustamente fatto osservare Paolo Ciani, consigliere regionale DEMOS del Lazio e candidato alle eventuali primarie del centro sinistra per il Comune, il fatto che i più importanti dirigenti romani del Pd rifiutino di candidarsi a sindaco rappresenta “un’umiliazione per la città”. Lo stesso avviene a destra. Di fatto Roma viene sfruttata dai ceti sociali più fortunati che la spremono a fondo, ma la descrivono come un mondo in declino da cui fuggire.
I ceti medi, medio bassi e bassi, quelli che non se ne possono andare, si arrabattano in una città che non funziona ma subiscono il clima di tradimento e abbandono delle élites (per questo hanno votato M5S, fenomeno non scomparso). Muoversi, curarsi e istruirsi è divenuto problematico non perché non ci siano le possibilità ma perché Roma rappresenta un universo di iniziative scollegate e non connesse tra di loro. Un mondo di frammenti.
Malgrado i social media, a Roma è più difficile che in altre città sapere, conoscere per collegarsi e raccogliersi attorno alle proposte, ai servizi e ai progetti più efficienti, innovativi o attrattivi. Il passaparola è ancora il sistema più diffuso per orientarsi. I romani si sono sentiti uniti ai funerali di Alberto Sordi o di Gigi Proietti, tentativo di ritrovare un’identità perduta. Oggi la maggioranza è delusa, depressa e di malumore anche se la maggioranza non se ne andrebbe mai. Se non fosse per i più privilegiati (attori compresi) che narrano di una città invivibile (che in realtà non vivono), la maggior parte dei romani attende un po’ disillusa tempi migliori, armandosi di pazienza.
Come reazione ci si rintana nel proprio quartiere e si prova a resistere, vivendolo al meglio. C’è un lato positivo in tutto questo: nascono iniziative locali interessanti e in controtendenza (a Tor Bella Monaca c’è addirittura una galleria d’arte) per smentire una narrazione troppo negativa. Ma resta l’assenza di una trama connettiva comune.
I municipi romani sono delle città medie (200-300.000 abitanti) già troppo grandi per essere gestiti da consigli municipali in mancanza di mezzi. Però nei quartieri qualcosa si può fare e la gente si auto-organizza.
I luoghi della cultura di cui Roma è piena vengono vissuti localmente. La città è cosparsa di posti di tappa, scali rappresentati dai grandi bar storici in cui fermarsi per poi ripartire verso la tappa successiva. Molto più grande delle altre città italiane, è possibile vivere Roma solo parzialmente, muovendosi in alcune aree senza mai toccarne altre. Una delle particolarità della città è l’abbondanza di verde: non solo le ville ma anche la campagna che si incunea in città a raggiera, tra una consolare e l’altra. Un’occasione per i romani almeno per fare sport e gruppi improvvisati si sono moltiplicati a dismisura.
Ciò che a Roma è necessario è una politica unitiva che ricrei tessuto e scavalchi i mille muri geografici e sociali che esistono. Come in altre città italiane tutto ciò che dipende dal pubblico è in rovina: traffico, nettezza urbana, servizi pubblici, sanità, assistenza e scuola. Ma la caratteristica romana è che il Comune nemmeno prova più ad intervenire sul corpo vivo urbano: si tratta di una macchina che nutre solo sé stessa, provando a resistere e sopravvivere. Il problema del Comune di Roma è che non riesce a far nulla di più che rimanere in vita.
Non che manchi di personale all’altezza: il fatto è che i problemi connessi alla sua stessa sussistenza sono talmente gravi da perdere di vista la città nel suo insieme. Questa è la ragione per cui dal Campidoglio si ha una visione distorta della città: dal Campidoglio si vede solo il Campidoglio. Al massimo si osservano le ramificazioni amministrative comunali, che però non hanno i mezzi per fare da sensori.
Le prime vittime di tale sistema sono gli impiegati comunali, umiliati nella loro professionalità, additati al pubblico ludibrio come se fosse solo colpa loro e malvisti dai concittadini. Tipico è l’esempio di “mafia capitale” in cui gli uffici comunali erano costantemente bypassati dallo stesso gabinetto del sindaco che si rivolgeva ad entità esterne per qualunque tipo di emergenza. Impressionò l’impiegata comunale che disse ai giudici: «Buzzi era sempre lì tanto che credevo fosse un dirigente del comune».
Dal canto suo la giunta Raggi non ha mai nascosto una profonda diffidenza per i dipendenti, considerandoli tutti o quasi dei corrotti. Bloccando ogni iniziativa per tali sospetti, l’attuale giunta ha vissuto di immobilismo: voleva rifondare tutto ma non ne ha avuto il coraggio. Non si può governare Roma contro la sua stessa amministrazione, pensando di cavarsela con la sola gestione aziendale o mediante una permanente caccia al colpevole. Senza qualcuno che apprezzi nel loro giusto valore la struttura e il personale del comune, che li valorizzi e restituisca motivazione, non se ne esce.
Per questo a Roma non basterebbe un sindaco o una sindaca del tipo “uomo o donna della provvidenza”, mandrake o super-manager. Serve piuttosto chi abbia la capacità politica e umana di ridare senso e ricucire insieme i frammenti della città, una personalità unitiva che crei attorno a sé un team più largo degli attuali assessori e dia fiducia prima di chiederla.
Urge che si valorizzino le risorse umane esistenti per rientrare in contatto dinamico con la città. Il centro del problema è dunque offrire a Roma un senso collettivo, a partire dall’amministrazione comunale. Salvare Roma ravvivando un senso d’insieme non è missione impossibile: basta uscire dall’equivoco che i romani siano ingovernabili.
Se i romani sono tradizionalmente indisciplinati e litigiosi, la città non è violenta: 18 omicidi nel 2018, 14 nel 2019. C’è in verità tanta droga che esprime piuttosto la depressione e la rassegnazione: un modo alternativo di fuga dalla realtà dentro una città di gente sola. Potremmo dire: una città rumorosa e disordinata ma formata da un universo di sonnambuli rinunciatari che vivono isolati.
Molte città italiane sono nel tempo divenute policentriche, Roma invece no. Il suo centro è stato sequestrato dalla politica (orribili le sempre più numerose barriere stradali fisse attorno ai palazzi della politica) senza esser stato sostituito da niente altro.
Mentre i cittadini voltano le spalle ad un centro storico svuotato, non sono richiamati verso altro. Spuntano in periferia grandi agglomerati commerciali all’americana: un modello suburbano estraniante nel quale tuttavia i più giovani si aggregano. La città risulta frantumata, senza un cuore che unisca i vari pezzi.
Tra i problemi strutturali più urgenti c’è quello della casa: circa 200.000 case vuote, 20.000 persone in case occupate, il maggior numero di richieste di sfratto d’Italia. E’ da oltre vent’anni che non si fanno case popolari (colpa anche della sinistra): poche centinaia l’anno per una lista di attesa di circa 12.000 famiglie. A ciò si aggiungono le 4.000 famiglie in residence del Comune ormai fatiscenti, i circa 7.000-8.000 senza fissa dimora casa e i 4.500 rom per i quali non si prevede nessuna soluzione. D’inverno i morti di freddo aumentano ogni anno.
Tra i problemi sociali improrogabili ci sono gli anziani soli. Oltre chi vive a casa sua, a Roma e provincia vi sono anche 450 istituti per anziani, con 14.000 ricoverati.
Il Ccovid ha fatto scoprire con raccapriccio che in molti casi ospizi e Rsa sono divenuti dei focolai di morte. Si stima inoltre vi siano 6000 anziani in strutture non censite né controllate. In tale ambito urge costruire da zero un sistema cittadino di assistenza domiciliare che potrebbe, tra l’altro, offrire molte possibilità di lavoro e valorizzare un tessuto umano considerato scarto.
Le prossime elezioni del comune di Roma potranno essere l’occasione per fare sintesi e trovare la direzione in cui muoversi. Occorre chiedersi “a cosa serve Roma”: un modo per porsi il tema della vocazione. In città vi sono tante risorse umane di generosità e impegno che attendono di essere convocate. L’aspetto centrale di tutto ciò che si potrà realizzare resta uno solo: ricreare quel “noi” che si è perso per strada e che solo potrà ridarci il sorriso.
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