Con la sola didattica online rischiamo di creare studenti di serie A e serie B
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23 Aprile 2020
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Due articoli della nostra Costituzione sono dedicati alla scuola. Vi si esplicita con chiarezza come la scuola debba essere un elemento di uguaglianza e giustizia sociale. A lungo e in diverse occasioni in questi 72 anni in tanti si sono interrogati sulla realizzazione di quei principi nella realtà della nostra società.
In alcuni momenti in maniera più partecipata, in altri affidando il dibattito a “esperti” e “sensibili”. È anche grazie a questi dibattiti- e a tante battaglie - che tanti diritti sono stati acquisiti. Pensiamo solo al superamento delle “classi speciali”, presenti ancora in molti paesi democratici.
È quindi importante porsi nuovamente alcuni interrogativi, soprattutto in un tempo in cui la disuguaglianza sembra “più normale” del passato. E ancor più dinanzi a un evento eccezionale: la scuola che si ferma, chiude, improvvisamente, ovunque.
Non era mai successo nella storia del nostro Paese. Ma guardando la realtà, pur con le attenuanti del fenomeno improvviso ed eccezionale, non si può negare che questo tempo di emergenza stia acuendo le disparità anche in termini culturali e di diritto allo studio.
Dal 4 marzo, giorno chiusura delle scuole, molti bambini e ragazzi non hanno più seguito il percorso scolastico iniziato. Spesso per marginalità sociale, a causa della disabilità o di disturbi dell’apprendimento, per povertà e mancanza di mezzi informatici, per arretratezza culturale delle famiglie o “dimenticanza istituzionale”.
Appare evidente che sia un imperativo categorico per tutti andare a cercare questi bambini e ragazzi e “riportarli” a scuola. Sappiamo che esistono le disuguaglianze, ma spesso la scuola, lo stare gli uni accanto agli altri, ci aiuta a sperare che l’istruzione serva per un “livellamento verso l’alto” della società. Le generazioni di “mi sacrifico per far studiare i miei figli e farli essere meglio di noi”, ce lo hanno insegnato. Eppure questa pandemia e la chiusura delle scuole ci obbligano a riflettere di nuovo.
I dati Istat mostrano le diverse facce della nostra società: il 42% dei minori in Italia vive in condizione di sovraffollamento, il 7% in grave disagio abitativo. Se a questo aggiungiamo il gap informatico i dati si fanno ancora più crudi: 850.000 ragazzi tra i 6 e i 17 anni non hanno un computer o un tablet a casa.
Spesso queste situazioni si sovrappongono: problemi abitativi, assenza di mezzi informatici, scarse competenze familiari. Mentre la scuola mette l’uno accanto all’altro e dà (o dovrebbe dare) medesimi strumenti, la didattica a distanza (DaD) aumenta la disparità e le disuguaglianze.
Come il provvedimento “io sto a casa” è parso irridere malignamente i tanti senza dimora, così prevedere la sola didattica “online”, esclude tutti coloro che connessi non lo sono affatto, sotto tanti punti di vista.
Dai bambini nei “campi Rom”, ai tanti nelle occupazioni, dalle famiglie numerose ad alcuni bambini disabili, dalle situazioni di indigenza a tanti “nuovi italiani”, fino ad arrivare ai ‘Bes’, rischiamo che l’attuale crisi crei studenti di serie B.
Proprio quelli per cui Don Milani diceva: “se si perde loro (i ragazzi difficili) la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. In tempo di pandemia, è un paragone particolarmente efficace.
È necessario andarli a cercare uno a uno e ‘inventare’ le modalità per non fargli perdere altro terreno. Alcuni insegnanti lo hanno fatto, cosi come i volontari e alcuni assistenti sociali. Ma troppi, per ora, sono ancora ‘scomparsi’.
Per loro non basterà una formula unica, serviranno una serie di interventi (tablet, supporto informatico, ‘chiavette giga’, dispense, schede, interventi “tecnici” e sociali), ma innanzitutto bisogna ‘ritrovarli’”.
Per noi di Demos questa sarà una priorità politica di questo tempo. Ma sarà importante per la società tutta che diventi una priorità di tanti.
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