Per sopravvivere la sinistra deve ricominciare a parlare con gli «spregevoli»
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30 Dicembre 2020
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Di Mario Giro su Domani.it
Nell'incessante ricerca su cosa debba essere e fare la sinistra oggi, l’intervento di qualche giorno fa di Goffredo Bettini apre a riflessioni non banali. Innanzitutto l’accento sul soggetto da costruire: senza partito non c’è che spappolamento. Il richiamo a una realtà che sembra del passato (il partito strutturato) non deve sorprendere: non si tratta soltanto di ricreare uno strumento ma di ricollegarsi a universi umani e sociali da rappresentare, oggi sfuggenti, destrutturati ed opachi.
Per ciò che concerne la figura del militante, oggi così rara, secondo Bettini esiste un aspetto umano e storico che incarna la forza politica in uomini e donne concreti. Il dirigente del Pd racconta della sua ricerca giovanile di «una solida forma dell’anima» che si trasformò nell’adesione al Pci come «casa interiore»: «un’attrazione fortissima, fattore d’ordine, di disciplina, di sentimenti alti e disinteressati, di continuo apprendimento dal presente e dalla storia».
Sono parole che ci rinviano ad un’epoca non poi così lontana, quando i partiti erano molto più che espedienti per il potere ma rappresentavano casa, scuola, formazione, amicizia, discernimento, educazione. È la stessa ricerca interiore che ha animato i cattolici nella Dc, i socialisti nel Psi e tanti altri impegnati nella ricostruzione del paese. Sognavano e vivevano tutto questo, mescolandolo ovviamente agli aspetti prosaici della politica, più utilitaristici o pragmatici come la gestione, l’organizzazione, la propaganda o l’arte di amministrare e governare.
I partiti del dopoguerra, quelli della cosiddetta Prima repubblica così tanto oggi disprezzati, ci hanno regalato la democrazia repubblicana e la Costituzione. Non sono stati gli alleati o gli americani a farlo, né altre forze esterne, né la tradizione liberale pre-fascista: sono stati i partiti dell’arco costituzionale.
Se di spappolamento della società di parla, la sofferenza tuttavia non è solo dei pochi militanti rimasti che non riescono più a compiere quel “corpo a corpo” con il popolo, come scrive. La sofferenza dell’essere liquidi è nella società stessa. Non si passa senza patimenti dall’essere una classe riconoscibile e compatta (ad esempio la classe operaria) a un pasticcio insipido e sfuggente, incomprensibile anche a chi ci sta dentro, liquefatto dentro la globalizzazione sociale.
Quando a sinistra ci si ripete ansiosi che «siamo ormai lontani dalla gente», si deve rammentare che il maggior peso e tormento di tale situazione grava sulla gente stessa che non ha più punti di ancoraggio e viene trascinata nel flusso incontrollabile della globalizzazione senza sapere dove va. Per questo viene istintivamente attratta da chi dice: «Riprendiamo il controllo di noi stessi». E a dirlo oggi sono soprattutto le destre sovraniste. La sinistra deve quindi trovare il suo modo per dire «riprendiamoci il controllo», smettendo di andare dietro intimidita al liberalismo ormai svuotato di valori. Gli autoritarismi accettano i principi liberali in economia senza discutere, rifuggendo quelli democratici. Ciò che la sinistra europea dovrebbe dire è «riprendiamoci il controllo democratico».
I problemi che viviamo oggi non sono del tutto nuovi: durante tutta la Prima repubblica c’è stata una vivace resistenza populista e retrograda allo spirito repubblicano. Populismi e sovranismi italici (anche i neofascismi, con buona pace di chi li nega) hanno vecchie radici. Dall’Uomo Qualunque in avanti, in Italia c’è sempre stata una voce pronta a denigrare la politica, a sostenere l’idea dell’uomo forte o del “grande ragioniere” come diceva Guglielmo Giannini, oppure dell’ambiguo terzaforzismo.
Sono sempre esistiti l’antipolitica, l’antipartitismo, le tentazioni individualistiche, localiste o regionaliste (ben prima della Lega bossiana), lo sprezzante inciucio per ogni compromesso, il benaltrismo, l’arroganza patriottarda, la rottamazione fasulla, il leaderismo o la ricerca del capro espiatorio. Così come c’è sempre stata -anche a sinistra- la tentazione di contrapporre diritti individuali a quelli collettivi, quella dell’elitismo, della rabbia e financo della violenza.
Ma i partiti dell’arco costituzionale hanno resistito per decenni a tali derive, mediante un’incessante opera di cultura e politica (mai disgiunte), nobilitando la migliore eredità culturale e storica del nostro paese. Davano spessore –con tutti i loro limiti e nelle rispettive differenze- ad una politica pensata, progettata, di servizio e di pubblica utilità, svolta nell’interesse generale. Questo almeno fino al tornante degli anni Novanta.
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