Qualche buona idea per la politica italiana che affronta il 2021
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3 Gennaio 2021
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di Mario Giro su Domani.it
Il ritorno delle medie potenze favorisce Turchia e Russia che con pochi uomini e pochi mezzi sono in grado di influenzare intere aree vicine a noi. L’Italia per la sua posizione geografica può avere un ruolo solo dandosi alcune priorità, senza temere di fare delle scelte. Nell’attuale situazione l’Italia può: ambire a diventare la garante della pace navale (rotte, acque territoriali, zone economiche esclusive, zone di search and rescue ecc.) nel Mediterraneo centrale e proiettare la propria influenza in quello orientale; operare per la pace in Libia sostenendo con più decisione l’opzione Onu su elezioni a dicembre 2021; difendere la sicurezza delle rimanenti comunità cristiane e yazide in medio oriente; operare per un nuovo assetto energetico basato su gas e rinnovabili; impegnarsi per l’armonizzazione e la condivisione delle responsabilità sui flussi migratori verso Europa; favorire un grande piano di investimenti in Africa per le proprie pmi mediante il sistema Sace e Simest; raggiungere lo 0,4 per cento nella cooperazione allo sviluppo. Sono tutte decisioni da prendere – laddove possibile in modo bipartisan - garantendone la continuità.
È ormai diffusa la consapevolezza che il progetto neoliberale di società abbia radicalizzato le diseguaglianze sociali, favorito il degrado delle infrastrutture pubbliche, approfondito la frammentazione sociale e dato origine alla crisi della sanità pubblica. Non si può reagire a tali aporie invocando la tecnica di governance: ciò delegittimerebbe ancor più la democrazia. Governance è termine amministrativo che non ha nulla a che vedere con il “buon governo” dipinto dal Lorenzetti nel 1339. La troppo celebrata idea di “distruzione creatrice” ha lasciato dietro a sé solo macerie. La fede liberale nel progresso e nella crescita continua è un’ideologia che ha scimmiottato quella utopica del marxismo. Va ora presa sul serio la lezione di papa Francesco: un nuovo progetto di economia al servizio delle persone.
Vera politica green non è la gestione della penuria ma cambiamento di modello di sviluppo. Il Covid ci ha mostrato che si può vivere muovendosi meno e lavorando a distanza. Malgrado le gravi conseguenze economiche che ciò ha prodotto, non si può semplicemente tornare a ciò che eravamo. Occorre ricominciare dall’habitat: le città, i borghi e le zone interne. È una grande occasione per rimodellare l’Italia, arrestando lo spopolamento di intere aree e di molti piccoli centri. È necessario ripensare un modello di vita diffuso sul territorio. Non è possibile che ogni città italiana piccola e media abbia il suo aeroporto ecc. Si rimetta mano alle tratte ferroviarie minori, si rammendi il territorio con piano dell’abitare e del lavorare (armonizzato alla sanità territoriale) che inverta la tendenza ad ammassarsi in pochi grandi centri. Vanno ricollegate le periferie con i territori attorno.
Nel nostro mondo globalizzato, l’unificazione vale solo per qualcuno e non per tutti. Ad esempio con il Covid si è vista la distanza tra chi ha una casa e chi non ce l’ha, tra chi ha un reddito e chi no e così via. Per completare la globalizzazione manca ancora qualcosa di profondo: una cultura della globalità che non si è ancora affermata. Com’è noto nell’incertezza si sparge la paura e aumenta l’odio sociale. Umiliare gli ultimi, i poveri o i popoli poveri non è saggia politica: prima o poi si paga. La contraddizione è palese: abbiamo troppo predicato la competitività e il merito per poi trovarci una società che odia i competenti. Tutti ormai agiscono come se fossero posti davanti all’alternativa tra autoctonia e sradicamento. A sinistra si sceglie la seconda opzione sotto il nome di mondializzazione o libera circolazione; a destra si preferisce il ritorno all’autoctonia völkisch, al razzismo settario. Ma così manchiamo di immaginazione e memoria: l’alternativa stessa è inaccettabile. Come sostiene Pierre Manent, non vi è avvenire per gli europei né nell’autoctonia, anche se bisogna pur nascere da qualche parte, né nello sradicamento, anche se – come diceva Montesquieu – «la comunicazione dei popoli produce grandi beni». La storia d’Europa non si comprende se non si fa intervenire una nozione completamente diversa (elaborata dall’antico Israele, riconfigurata dal cristianesimo): la nozione di alleanza.
I liberali parlano oggi solo di economia e non comprendono le perdite immateriali, quelle legate allo status, all’appartenenza, all’orgoglio, né capiscono l’umiliazione che ne deriva per la massa di coloro che si sentono (a torto o a ragione) lasciati indietro. I liberali ragionano e si muovono individualmente senza sentire l’attaccamento di gruppo né percepire quando tale attaccamento è minacciato. Il liberalismo progressista sostiene che solo le minoranze provano un vero attaccamento collettivo ma non si accorge che ciò può ingenerare reazioni anche nella maggioranza. Questo è l’errore liberale: credere che basti affermare che tutti sono uguali, visto che l’economia ha livellato tutti ed è basata sulla meritocrazia. È falso: senza darsi da fare per quelli che si sentono minacciati la democrazia liberale fallisce. Alla fine la gente si rivolge alle destre sovraniste che dicono “se sei cittadino del mondo allora non sei cittadino di nessun luogo”. È sbagliato ma più convincente.
Occorre rilanciare la rappresentanza sociale: come sostiene Giuseppe De Rita si tratta di un lavoro faticoso, di ascolto, di interpretazione, di coagulo in precise domande politiche, di confronto con le sedi del potere, di ricerca di condivisione per le scelte di lungo periodo. Chi può gestire tale processo se non i partiti? Ma devono essere partiti che accettino la sfida del territorio, che si applichino ad interpretare interessi ormai sminuzzati allo scopo di mobilitare tanti e diversi soggetti sociali e politici. Si tratta in fin dei conti di mobilitare quello che Raghuram Rajan chiama il «terzo pilastro» e cioè la dimensione locale e comunitaria. Non solo il terzo settore istituzionalizzato ma tutto il pulviscolo di realtà sociali autorganizzate per bisogni specifici. La globalizzazione ha ridotto le relazioni di prossimità e prodotto segregazione sociale, creando sacche di disperazione come i ghetti urbani o le aree rurali deprivate.
Come sostiene Michael Sandel: «La meritocrazia mette al bando l’idea di dono e della grazia». Non si tratta di un problema religioso o morale: la meritocrazia deprime la capacità delle persone di sentirsi parte di un destino comune, soffoca il sentimento di solidarietà.
Si capisce la solidarietà quando si ha coscienza che i talenti di cui ciascuno dispone non sono stati meritati. Il merito com’è stato concepito negli ultimi anni genera sentimenti contrastanti nella società: chi dispone di mezzi e talento diventa tracotante, suscitando umiliazione e risentimento presso chi non ne ha. È nella profondità di tale contrasto che nasce la reazione populista.
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