Questa è vita e non chiamatelo un Capodanno alternativo
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2 Gennaio 2020
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su Avvenire
Questo Capodanno sono uscita, uscita dalle mura della mia vita, che considero troppo angusta con la pesantezza di un figlio disabile. Sono uscita e ho incontrato altre vite, più dure della mia, altri occhi, qualcuno distrutto, qualcun altro carico di speranza. Quasi tutti colmi di gratitudine. Credevo di aver scelto un Capodanno alternativo: ho aderito all’offerta della mia parrocchia e mi sono iscritta con i volontari di Sant’Egidio insieme a mio marito, per portare il pasto ai senza dimora di Roma. Sistemati figli e nipoti, finalmente liberi, da tempo volevamo metterci a disposizione. Ebbene, non avevo intenzione di raccontarlo, specie perché in molti mi dicono: 'Ma come, una volta che non hai tuo figlio, cerca di riposarti, te lo meriti'. Tantomeno volevo farlo per non sentirmi dire 'brava'. Visto però che il mio mestiere è raccontare, vorrei fare nomi e cognomi. Perché noi tutti abbiamo un nome che ci distingue e oggi mi sento molto concreta.
Siamo partiti da una delle parrocchie che hanno aderito all’iniziativa della Comunità di Trastevere, la Santissima Trinità in via Marchetti. Dovevamo essere un po’ meno di cento e chi voleva poteva fermarsi a cena, dopo il giro tra i poveri, per brindare insieme al nuovo anno. Ci ha accolto una sorprendente ma piacevole bolgia. Ragazzi, tanti ragazzi, per lo più allegri, qualcuno più serio. Più di duecento, in coda per registrarsi e prendere direttive. Massimiliano, Alessandro e don Fernando lì a muoversi con disinvoltura tra la bolgia, ci assegnano le zone. Una preghiera sotto lo sguardo vigile del parroco, padre Raffaele, e tutti in macchina carichi di vettovaglie. A me e mio marito ci tocca Termini, a due passi dalla redazione. Molti di quei volti non sono nuovi per me, ci passo accanto ogni giorno, ma forse non li vedo. Mi sembra di aver inforcato gli occhiali. Sono lì, donne e uomini, di tutte le età. Alcuni ci vengono incontro, perché sanno che avranno un pasto caldo. Altri chiedono coperte: per Roma c’è un freddo inusuale, noi battiamo i piedi pur essendo ben bardati. Qualcuno mi ricorda mio figlio, con le domande insistenti, le richieste un po’ strampalate e lo sguardo in un mondo a tratti impenetrabile.
Storie, vite, sguardi, vezzi, desideri, rimpianti, disprezzo, commozione sfilano nella loro immobi-lità davanti ai nostri occhi. Noi pivelli volontari cerchiamo di capire, di essere all’altezza delle esigenze per lo più inespresse. Di non deludere i fagotti di umanità in miseria che si spostano e ci guardano. Tra di noi, come gazzelle, si muovono i volontari esperti. Renata è come una mamma per loro. Li conosce e loro la guardano grati. E Paolo, Paolo Ciani, anni di esperienza e oggi consigliere in Regione, eppure sempre lì, con i suoi amici più poveri. Tonino presidia il punto di ritrovo e smista i pasti che arrivano dalla mensa di via Dandolo insieme con le coperte. Hanno pronti 40 posti letto nella chiesa di san Callisto, messa a disposizione dal parroco per far fronte all’ondata di gelo. Pochi nella marea di miseria che ci circonda, ma loro sanno chi ne ha più bisogno. Solo 24 ore prima nella Capitale è morto uno dei 'barboni', con cui avevano festeggiato il Natale.
I pasti caldi sono tantissimi, i poveri anche. Sembrano bastare per tutti. Anche le coperte. C’è spazio per un secondo giro: qualcuno chiede cioccolata e arriva anche quella. È festa. Tutto intorno già si sparano i botti di Capodanno. I poveri ci fanno gli auguri. Noi sorridiamo, pronti a rientrare belli congelati alla base. Non ci sentiamo più buoni, ma vorremmo fare ancora e ancora. Per oggi però è tutto. Ci si guarda negli occhi che interrogano. Che si aprono e vedono un po’ di più. Questa bolgia di ragazzi ha un volto e un sorriso silenzioso: fiducia e speranza, altruismo e senso del dovere, dice il presidente Mattarella. Ci sono. Buon 2020.